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Svizzera e Cina verso il sole dell’avvenire

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«…sfruttare con sobrietà la nostra buona posizione di partenza politica, psicologica e commerciale, per conservare quote svizzere in questo mercato con potenziali di sviluppo, che prima o poi si aprirà maggiormente al commercio estero, in gara con gli sforzi analoghi e sempre più intensi dei nostri concorrenti occidentali.» Il discorso dell’ambasciatore Raymond Probst davanti agli impiegati della Ciba Geigy, nel 1975, conferma quanto la Svizzera fosse già allora attenta e interessata alle enormi potenzialità del mercato cinese.

La recente conclusione di un accordo di libero scambio tra Svizzera e Repubblica popolare cinese non nasce, infatti, dal nulla, ma è il frutto di lunghi e intensi contatti tra due paesi che più diversi non potrebbero essere.

Ne parliamo con gli esperti del Gruppo di ricerca dei documenti diplomatici svizzeri (Dodis): Thomas Bürgisser e Sacha Zala 

 

Il documento storico

Relazione del delegato del Consiglio federale agli accordi commerciali, Raymond Probst, (Dipartimento politico federale), Basilea, 20 febbraio 1975.

Originale in tedesco nella banca dati Dodis: dodis.ch/37700

Traduzione

La Cina quale futuro partner commerciale della Svizzera

Relazione dell’ambasciatore Raymond Probst, delegato del Consiglio federale agli accordi commerciali, tenuta a Basilea il 25 febbraio 1975 di fronte all’associazione degli impiegati della CIBA-GEIGY S.A.

Vi ringrazio di cuore per il vostro amichevole invito a parlarvi questa sera di un aspetto particolarmente affascinante della mia attività professionale piuttosto variata. Proprio quando a Berna ci si deve occupare di questioni riguardanti il commercio internazionale e si devono condurre trattative con l’estero per garantire alla nostra economia l’accesso ai mercati, si sente il bisogno di tornare di tanto in tanto alla «base» – per così dire – di entrare in contatto con l’economia produttiva vitale, con quelli che pianificano, ricercano, fabbricano, gestiscono, organizzano, distribuiscono, che ogni giorno stanno al loro posto, con responsabilità, nel processo di lavoro, insomma con voi, stimati presenti. Se questo avviene di fronte all’associazione degli impiegati di un’azienda leader di un settore industriale che esporta gran parte della sua produzione, che è al secondo posto tra le industrie d’esportazione svizzere, che lo scorso anno ha contribuito con esportazioni per un valore di 8,3 miliardi di franchi a quasi un quarto delle nostre esportazioni totali e che in questo modo ha fornito un contributo decisivo alla salvaguardia del nostro benessere, frutto del nostro lavoro, in un clima economico difficile, è per un me un piacere particolare. Apprezzo soprattutto il fatto che gli organizzatori della manifestazione odierna abbiano previsto una discussione dopo la relazione. Anch’io spero che sia animata, come si dice nell’invito, in modo che entrambe le parti – vale a dire sia il «messaggero» da Berna, sia voi qui a Basilea – ne traggano profitto. Da parte mia non voglio limitare il vostro interesse solo alla Cina, ma cercherò anche di rispondere, se lo desiderate, a questioni relative al commercio estero nel suo complesso. […]

Le misure adottate di recente per dare nuovi impulsi al commercio con la Cina si inseriscono appieno in questo quadro di universalità delle relazioni economiche svizzere e della diversificazione del nostro accesso ai mercati esteri. Già l’esposizione di macchine utensili a Mosca nella primavera del 1973, inaugurata dal consigliere federale Brugger, capo del Dipartimento dell’economia, e la grande «Expo» di Sao Paulo in Brasile nell’autunno dello stesso anno, alla quale a rappresentare la nostra massima autorità è stato delegato l’ex consigliere federale Schaffner, rientravano in questo contesto, anche se hanno avuto luogo prima della crisi petrolifera, ma già nel quadro della crisi monetaria mondiale e del rallentamento del commercio internazionale. A questi eventi si è aggiunta la più importante manifestazione svizzera in Asia dello scorso anno: l’esposizione di tecnologia industriale («Swiss Industrial Technology Exhibition: SITEX 74») tenutasi su una superficie di 12’000 m2 nel grande palazzo delle esposizioni di Pechino, ottimamente organizzata e portata a termine con successo lo scorso agosto dalla Centrale per la promozione del commercio. Stampa, radio e televisione ne hanno ampiamente parlato. L’importanza di questa esposizione – una delle più grandi mai organizzate dalla Svizzera – consisteva da un canto nel far vedere agli ambienti economici cinesi e alle cooperative di acquisto statali la varietà e l’alta qualità tecnologica della produzione industriale svizzera. Queste cerchie, che avevano evidentemente un’idea solo parziale della varietà industriale e delle capacità economiche di un piccolo paese come la Svizzera, sono rimaste senza dubbio sorprese da quanto è stato loro mostrato. D’altra parte con questa manifestazione si voleva offrire agli espositori svizzeri – erano rappresentate oltre 200 aziende – la possibilità di stabilire contatti in maniera concentrata con gli enti cinesi che si occupano di commercio estero e con i consumatori finali. Questo ultimo punto è stato particolarmente apprezzato, perché per i fornitori normalmente questi consumatori finali sono irraggiungibili – a nostro avviso a svantaggio di entrambe le parti – perché com’è noto nelle economie a direzione centralizzata i contatti economici con l’estero sono appannaggio esclusivo delle apposite corporazioni per il commercio estero. Per approfondire i contatti con questi enti centrali e con l’organizzazione mantello cinese a cui sottostanno, la Centrale per la promozione del commercio aveva del resto formato una delegazione economica composta di 16 persone provenienti da tutti i settori economici importanti, tra cui naturalmente anche l’industria chimica, rappresentata dal Dr. Kurt Rohner, membro della direzione della vostra azienda. Questa delegazione economica ha potuto compiere numerosi accertamenti importanti, stabilire contatti utili e preparare la strada per il futuro. Ma naturalmente, per far sì che questo impegno dia dei frutti, occorre garantire una continuità. La partecipazione della Repubblica popolare cinese come ospite d’onore straniero al «Comptoir Suisse» di Losanna, in programma il prossimo autunno, offrirà un’altra opportunità in questo senso.

Grazie alla presentazione molto accurata, che voleva pubblicizzare anche la Svizzera in generale, e alla qualità delle merci esposte, SITEX a detta di tutti gli esperti cinesi come pure dei diplomatici stranieri ha lasciato un’impressione eccellente. Il numero di 120’000 visitatori, originariamente previsto da parte cinese, è stato superato nel giro di due settimane di circa 30’000 persone. L’esposizione è stata perciò visitata quotidianamente da 10’000 persone. Questo è tanto più notevole, se si considera che le manifestazioni di questo genere in Cina non sono liberamente accessibili; l’accesso è anzi accuratamente selezionato, riservato a lavoratori invitati appositamente, soprattutto esperti specializzati di tutti i livelli, che vengono scelti probabilmente in base a criteri di utilità. Da parte svizzera, in concomitanza con la mostra, sono stati inoltre organizzati circa 150 simposi tecnici per specialisti cinesi dei diversi settori, simposi che hanno suscitato un grande interesse. È vero che come ci si poteva aspettare e analogamente a quanto è avvenuto per le esposizioni di altri paesi dell’Europa occidentale, solo una parte della merce esposta è stata venduta; sulla scorta delle circa 500 trattative di acquisto ci si possono tuttavia aspettare ordinazioni consistenti. I costi dell’esposizione possono essere perciò considerati in un certo senso un investimento per il futuro – un investimento a mio avviso redditizio. Un’attenzione particolare è andata naturalmente ai prodotti della nostre industrie chimica, orologiera e meccanica, che già oggi forniscono buona parte delle nostre esportazioni in Cina; ora tuttavia anche altri settori dovrebbero trovare accesso.

Un’impronta particolare è stata data alla nostra esposizione dalla presenza del «ministro degli esteri» svizzero, il consigliere federale Pierre Graber, capo del Dipartimento politico federale, che accettando l’invito del suo omologo cinese ha inaugurato assieme a lui l’esposizione. È evidente che la visita del capo della diplomazia svizzera, accompagnato da alti funzionari del Dipartimento politico e del Dipartimento dell’economia – tra cui chi vi parla – ha offerto l’occasione di uno scambio di opinioni politiche tra i due ministri degli esteri. Capirete che questa parte della nostra missione in Cina – al di là di quello che il consigliere federale Graber ha detto alla stampa, alla radio e alla televisione dopo il suo ritorno – non può essere oggetto di una relazione pubblica. Il tema del mio intervento riguarda del resto esplicitamente gli aspetti economici che vi interessano in modo particolare, anche se naturalmente nella Cina maoista la politica ha priorità assoluta e le considerazioni economiche sono normalmente subordinate a obiettivi politici. Non credo tuttavia di violare un segreto dicendo che da parte svizzera è stata naturalmente colta l’occasione per presentare ai nostri ospiti gli aspetti essenziali del nostro paese, il suo ruolo indipendente in Europa e nel mondo, gli scopi e obiettivi della sua neutralità perpetua, armata, attiva, solidale e mediatrice. Da parte cinese è stato invece sottolineato, come già fatto ripetutamente con altri visitatori stranieri di rilievo, il grande interesse di Pechino a un’Europa occidentale unita e forte. Il motivo di questo desiderio non necessita certo di ulteriori spiegazioni. È tuttavia in contrasto evidente con l’incoraggiamento che la Cina rivolge agli Stati petroliferi, che a loro volta creano gravi problemi proprio all’Europa. Comunque non vogliamo addentrarci qui nell’apparente incompatibilità degli obiettivi cinesi; dedichiamoci piuttosto, dopo questa breve divagazione nei terreni scivolosi della politica, alle questioni più prettamente economiche.

Il viaggio della delegazione governativa svizzera a Pechino aveva naturalmente anche uno scopo essenzialmente economico, oltre a quello puramente politico. Il capo del Dipartimento politico si è fatto accompagnare in particolare dal direttore della Divisione del commercio, l’ambasciatore Paul Jolles, e dal delegato per i trattati commerciali, che vi sta ora parlando. Lo scopo non era tanto quello di raggiungere un risultato economico immediato; questo rientrava piuttosto nei compiti delle aziende svizzere che esponevano alla SITEX. Per noi si trattava invece di chiarire in primo luogo gli interessi reciproci e di esplorare le possibilità e le condizioni per uno sviluppo a lungo termine delle relazioni economiche bilaterali, che naturalmente a causa della distanza, della lingua e della differenza di sistema pongono problemi particolari. In questo contesto si trattava anche di sfruttare il notevole goodwill, citato spesso, sui cui la Svizzera può contare grazie al riconoscimento diplomatico precoce della Repubblica popolare cinese – nel 1950 siamo stati il primo paese occidentale che ha deciso di compiere questo passo – e nello stesso tempo di manifestare l’interesse del nostro Stato neutrale ad avere relazioni universali anche dal punto di vista economico.

I nostri colloqui con il ministro cinese per il commercio Li Chiang e con il presidente dell’organizzazione mantello per il commercio estero statale cinese Wang Yao-ting, che tra l’altro un anno e mezzo fa ha visitato la Svizzera con una delegazione, avevano lo scopo di presentare i principi fondamentali della politica svizzera rispetto al commercio estero e di conoscere meglio l’orientamento della politica economica e commerciale cinese. Qui abbiamo avuto una volta di più la conferma che per la Cina, la quale economicamente si definisce con decisione un paese in via di sviluppo – e con ciò prende anche politicamente le distanze dalle due superpotenze USA e URSS – l’approvvigionamento agricolo e il conseguente graduale sviluppo di una propria industria sono prioritari. Questi settori devono prima di tutto soddisfare l’enorme domanda interna, mentre all’esportazione è conferito per il momento solo un ruolo sussidiario. È significativo che il commercio estero cinese in cifre assolute raggiunga solo un terzo circa del volume commerciale globale della Svizzera e sia quindi marginale per una paese delle dimensioni della Cina e in questo senso non ha in nessuno modo la stessa importanza per l’economia nazionale che ha da noi.

Tuttavia dentro questi limiti c’è anche un certo spazio per lo scambio commerciale internazionale. Questo sembra anzi essere cresciuto considerevolmente negli ultimi tempi. La Repubblica popolare, in effetti, non può rimanere completamente isolata se vuole partecipare allo sviluppo generale. I nostri colloqui hanno confermato l’interesse reciproco allo sviluppo delle relazioni commerciali tra Svizzera e Cina e a un’analisi dei problemi pratici che bisogna risolvere per favorire gli scambi tra due partner con sistemi economici diversi. Qui possiamo accennare sommariamente a questi problemi da un punto di vista svizzero. Essi riguardano, visto l’interesse cinese al know-how tecnico, la forma dei contratti di licenza e le modalità per il pagamento delle licenze; la protezione della proprietà intellettuale; le forme di un’eventuale cooperazione tecnologica, rispetto alla quale i cinesi hanno tuttavia ancora grandi riserve; l’andamento del corso del Renminbi, che si è trasformato in una valuta parzialmente convertibile e il cui utilizzo negli scambi commerciali internazionali nel quadro di operazioni concrete e ben delimitate è promosso con forza dai cinesi; la questione del contatto con i consumatori finali, schermati – come già detto – dalle corporazioni per il commercio estero; l’eventuale creazione di un forum di contatto tra l’economia privata svizzera e le corporazioni cinesi, ecc. L’accordo commerciale tra Svizzera e Cina, nel frattempo concluso, ha già permesso in questo ambito progressi e chiarimenti importanti. Su questo tema tornerò ancora più dettagliatamente.

Rimaniamo però dapprima ancora per qualche minuto sulla questione dell’oggetto concreto di tutti questi sforzi, vale a dire sull’ampiezza e la struttura degli scambi commerciali svizzero-cinesi. Soprattutto negli ultimi anni gli scambi si sono sviluppati in modo soddisfacente. Nel 1974 hanno raggiunto un volume di circa 270 milioni di franchi, con una relazione piuttosto precisa di 3:2 a favore delle esportazioni svizzere. È tuttavia chiaro che le possibilità esistenti tra un paese fortemente industrializzato come la Svizzera, che in cifre assolute è la decima o undicesima tra le nazioni dedite al commercio globale, e l’enorme impero cinese con i suoi 800 milioni di clienti potenziali, se posso esprimermi consapevolmente in termini così semplicistici, sono ben lungi dall’essere sfruttate appieno. Il fatto che le importazioni di merci cinesi in Svizzera costituiscano solo un quarto per cento delle importazioni complessive della Svizzera e che le nostre esportazioni verso la Cina corrispondano a meno di un mezzo percento delle nostre esportazioni totali è sufficientemente illuminante; lo stesso vale anche per il fatto che il volume dei nostri scambi commerciali con il gigantesco impero cinese corrisponde per dimensioni a quello con paesi come l’Algeria, la Romania, la Grecia o il Kuwait. Anche se si considerano la distanza geografica, la barriera linguistica e la differenza di sistema tra l’economia di mercato svizzera e la particolare economia cinese, gestita dallo Stato – differenza che si può tuttavia superare – esistono per entrambi gli Stati ancora notevoli possibilità di sviluppo. Ora è vero che l’economia della Repubblica popolare cinese, a causa delle sue dimensioni continentali, è orientata in primo luogo verso il mercato interno. Tuttavia, come l’esperienza ha dimostrato, a Pechino la disponibilità a scambi commerciali transfrontalieri è presente. La nazione cinese si è posta come obiettivo di contare – come viene sempre detto – sulle «proprie forze» per sviluppare la sua economia. Ciò non significa però assolutamente una politica delle «porte chiuse». La Repubblica popolare cinese è oggi assolutamente interessata, come si è espresso anche con noi il ministro del commercio Li Chiang, a «imparare dall’estero», ad avere degli scambi commerciali «sulla base dell’uguaglianza e del vantaggio reciproco» e a procurarsi all’estero quello che manca alla sua economia, in modo che la produzione possa essere sviluppata e la prosperità economica possa essere promossa.

Per l’economia d’esportazione svizzera tutto questo ha già sortito vari effetti. A differenza della maggior parte degli altri paesi in cui il commercio è controllato dallo Stato, la Cina non è interessata solo ai beni d’investimento della nostra industria meccanica, unanimemente apprezzati, e ai prodotti della nostra industria chimica, che corrispondono a quasi la metà, risp. a un quinto delle nostre forniture dello scorso anno alla Repubblica popolare. Da anni è diventata anzi anche un cliente apprezzato di un bene di consumo così tipico come gli orologi svizzeri; il numero di orologi venduti in Cina nel 1974, più di un milione, ha rappresentato per valore un quarto delle nostre esportazioni complessive verso la Cina. Viceversa la Svizzera acquista oggi dalla Cina soprattutto prodotti agricoli, alcuni materiali chimici di base, seta grezza per la lavorazione nell’industria tradizionale svizzera della seta e tessuti, che tuttavia fanno parzialmente concorrenza ai prodotti della nostra industria tessile e dell’abbigliamento, suscitando una certa preoccupazione. C’è da sperare che l’industrializzazione interna promossa dalla Repubblica popolare porti a una crescente diversificazione dell’offerta cinese, al momento ancora piuttosto limitata, offrendo nuovi prodotti che interessino concretamente il mercato svizzero.

Questo scambio commerciale che si sta intensificando ha fatto sorgere già da tempo l’idea di creare un quadro che permetta un ulteriore sviluppo. È vero che gli scambi possono già avvenire, e potranno esserlo anche in futuro, senza uno speciale accordo. Nelle relazioni tra un’economia di mercato libera come quella svizzera e un paese in cui il commercio è controllato dallo Stato come nella Repubblica popolare cinese un accordo commerciale ha però una funzione particolare: serve a superare le differenze di sistema che, come insegna l’esperienza, ostacolano gli scambi. Attraverso una base contrattuale, che assume anche un certo valore «simbolico», alcune particolari modalità di comportamento, che in parte sono già messe in pratica, possono essere fissate formalmente, nell’interesse della certezza del diritto e della continuità. L’esistenza di un accordo commerciale all’interno della concezione di economia pianificata del nostro partner commerciale comporta un ulteriore garanzia che le possibilità di scambio reciproche siano integrate nei piani pluriennali cinesi.

Indicativo dell’interesse della Cina per il commercio con la Svizzera e per noi positivo è il fatto che il ministero cinese per il commercio estero abbia proposto poco prima dell’apertura dell’esposizione a Pechino la stipulazione di un accordo commerciale e che a questo scopo ci abbia subito sottoposto una bozza. Non abbiamo esitato a cogliere la palla al balzo. In quanto delegato del Consiglio federale per i contratti commerciali responsabile per la Cina ho utilizzato il mio soggiorno a Pechino – nella misura in cui la generosa ospitalità cinese me ne ha ancora lasciato il tempo – per iniziare trattative concrete con i cinesi, sulla base di una controproposta svizzera. I punti rimasti aperti dopo questi colloqui sono stati risolti attraverso i canali diplomatici. Così, visto che da entrambe le parti c’erano la buona volontà, la comprensione e la disponibilità a trovare un’intesa, è stato possibile firmare a Berna il nuovo accordo commerciale svizzero-cinese ancora prima di Natale, il 20 dicembre 1974.

In cosa consiste il suo contenuto, relativamente semplice? Dal punto di vista materiale lo scopo dichiarato dell’accordo è la promozione degli scambi commerciali bilaterali. A questo scopo è collegata una disposizione per cui la struttura dello scambio di merci dovrebbe essere ampliata – dal nostro punto di vista allo scopo di tenere maggiormente in considerazione beni di consumo svizzeri spesso trascurati. Nelle questioni doganali è confermato il principio già ora applicato della nazione più favorita (escludendo come di consueto i vantaggi derivanti da unioni doganali, zone di libero scambio o traffico frontaliero). Quali responsabili delle operazioni commerciali sono indicati da parte svizzera persone naturali e giuridiche, da parte cinese corporazioni statali per le importazioni e le esportazioni. Il commercio dovrebbe avvenire sulla base di prezzi ragionevoli, di mercato, quindi senza il ricorso a riduzioni illecite dei prezzi. Questo potrebbe servire per esempio contro eventuali forniture di prodotti tessili sottocosto. Per quel che riguarda il traffico dei pagamenti, questo continua ad avvenire in franchi, renminbi cinesi o altre valute convertibili, visto che anche prima non c’era clearing. A differenza della maggior parte degli altri contratti con paesi dell’Est, l’accordo con la Cina non contiene una vera clausola sulla cooperazione industriale, ma si limita a esprimere l’interesse per lo scambio commerciale nell’ambito dell’industria, della tecnica e – vale la pena sottolinearlo – dei servizi. Per quel che riguarda la protezione della proprietà intellettuale a esso collegata, importante anche per l’industria chimica, la protezione reciproca dei marchi è già garantita da uno scambio di note fra Svizzera e Cina del 1956/57. Per il momento la legislazione cinese non offre invece una base per una protezione generalizzata delle invenzioni e dei brevetti stranieri; esiste tuttavia la possibilità, secondo quanto esplicitamente assicurato dal ministero per il commercio estero, di concordare una simile protezione caso per caso al momento della stipulazione di un contratto commerciale, cosa che dovrebbe però ancora essere verificata nella pratica. Questa situazione senza dubbio completamente soddisfacente, tanto più che la Repubblica popolare cinese non ha aderito neppure agli accordi internazionali sulla protezione della proprietà intellettuale. Continueremo a seguire la questione. La creazione di una commissione mista, formata da delegati del governo di entrambe le parti, che dovrebbe riunirsi su richiesta di un partner contrattuale alternativamente a Berna o a Pechino e la consueta estensione dell’ambito di validità al Principato del Liechtenstein completano l’accordo, concluso per la durata di tre anni e che in seguito, se non è disdetto, verrà prolungato tacitamente di un anno ogni volta.

In questo modo è stato creato uno strumento utile – così noi speriamo – per spianare adeguatamente la strada agli scambi commerciali bilaterali.

Dopo tutti questi sforzi – e con questo arrivo all’ultimo capitolo della mia esposizione – quali sono le prospettive future delle nostre relazioni economiche con la Cina? Naturalmente contiamo di aumentare già presto in modo cospicuo il nostro commercio con la Repubblica popolare, in particolare alla luce della situazione economica abbozzata prima. Ogni aumento possibile delle esportazioni è oggi un contributo gradito alla salvaguardia della nostra situazione economica e merita il nostro impegno. Nello stesso tempo bisogna mettere in guardia da speranze euforiche. È difficile aspettarsi un aumento immediato e spettacolare del volume di scambi con la Cina. Lo sviluppo avverrà piuttosto in un contesto limitato. Vari motivi suffragano questa affermazione:

Prima di tutto la Cina è impegnata a coprire il suo bisogno di prodotti industriali per quanto possibile con l’ampliamento del proprio settore industriale. Secondo il principio di Mao, più volte ripetuto – lo abbiamo già citato – la Cina deve sviluppare la sua economia «con le proprie forze», ciò che però, vista la già citata capacità pragmatica cinese di adattare il dogma alla realtà, non esclude per niente la possibilità di «imparare dall’estero» e di procurarsi all’estero quello che non si riesce a produrre da soli. L’accento sarà posto però piuttosto sull’acquisto di tecnologia straniera e probabilmente sull’acquisto di impianti «chiavi in mano».

Il primato dell’economia cinese continua quindi a risiedere nell’agricoltura, verso la quale l’industria, integrata nel mondo rurale, deve per il momento ancora orientarsi. «Prendere l’agricoltura e l’industria come fattori dominanti, regolare in modo sensato le relazioni tra agricoltura, industria leggera e industria pesante, accelerare e condurre in porto lo sviluppo dell’agricoltura», recita il principio spesso citato. L’agricoltura dovrebbe essere gradualmente meccanizzata, in modo da liberare manodopera per l’industria, senza però che ci sia la necessità di un’industrializzazione forzata per creare posti di lavoro. Al contrario della rivoluzione sovietica, sostenuta dal proletariato industriale delle città, la rivoluzione cinese è nata com’è noto da un sollevamento dei contadini. Questo ha ancora oggi degli effetti. O, come si esprime il presidente Mao: «La popolazione della Cina è composta in maggioranza di contadini. La rivoluzione è stata vinta con il loro aiuto. Per aver successo nell’industrializzazione del paese bisogna di nuovo contare sul sostegno dei contadini». In ogni caso è degno di nota che la Cina, anche a differenza di molti paesi in via di sviluppo, si impegni a sviluppare la sua economia dal basso verso l’alto, basandosi sulle proprio forze con sobrietà e zelo, senza considerazioni di prestigio.

La Cina è infine apparentemente decisa a conservare complessivamente – anche se non necessariamente bilateralmente – una bilancia commerciale e dei pagamenti equilibrata. Un aumento delle importazioni è preso in considerazione solo nella misura in cui tiene il passo con lo sviluppo delle esportazioni, senza che, a quanto pare, si voglia forzare un’industria di esportazione. Non si vogliono – così viene detto – né aiuti finanziari dall’estero, né crediti mercantili; l’esperienza con l’URSS avrebbe mostrato che così ci si espone solo alla dipendenza dall’estero. Perlomeno non si è contrari – anche qui con un’interpretazione pragmatica del dogma – ad accettare nel caso di ordinazioni all’estero «paiements échelonnés ou différés», pagamenti a rate o scadenze dilazionate e ultimamente anche depositi bancari stranieri in banche cinesi. Concretamente, questo si differenzia ben poco da quelli che chiamiamo crediti mercantili. Qualsiasi forma di indebitamento a lungo termine rimane invece un tabù.

A parte questi elementi frenanti, potrebbe però convenire già ora e in ogni caso sul lungo periodo, sfruttare con sobrietà la nostra buona posizione di partenza politica, psicologica e commerciale, per conservare quote svizzere in questo mercato con potenziali di sviluppo, che prima o poi si aprirà maggiormente al commercio estero, in gara con gli sforzi analoghi e sempre più intensi dei nostri concorrenti occidentali.

Con questo sguardo costruttivo sul futuro voglio concludere. Ci sarebbe ancora molto da dire, al di là degli argomenti puramente economici. Si potrebbe parlare del ricco bagaglio di impressioni personali e di esperienze raccolte in Cina. Forse qualcosa potrà ancora essere menzionato nel gioco delle domande e delle risposte. Ma non voglio parlare senza fine.

Vi ringrazio per l’attenzione.

Per approfondire il tema:

Altri documenti: Il processo verbale delle conversazioni tra il Consigliere federale Pierre Graber con il Ministro degli affari esteri cinese il 3 e 4 agosto 1974, dodis.ch/37706; il processo verbale del colloquio di Graber con il Ministro del commercio con l’estero cinese del 5 agosto 1974, dodis.ch/37708, e il rapporto politico dell’ambasciatore svizzero a Beijing, Heinz Langenbacher, del 24 ottobre 1975, dodis.ch/37717.

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